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Prospettive future sull’ evoluzione del sistema bancario

Sono passati molti anni dalle atroci condizioni lavorative descritte da Upton Sinclair nel suo “La Giungla” (definito da Jack London “la Capanna dello Zio Tom degli schiavi salariati”) e per fortuna i lavoratori, attraverso lotte di fabbrica e sindacali, hanno ottenuto molti diritti e garanzie che solo un secolo fa (proprio il periodo in cui si svolge il romanzo di Sinclair, che descrive con incredibile realismo e crudeltà l’inferno dei macelli di Chicago) sembravano irraggiungibili.

In Italia un pilastro fondamentale della conquista di questi diritti è indubbiamente la Legge 300 del 20 maggio 1970– Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e delle attività sindacali nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento –, meglio nota come “Statuto dei Lavoratori”, di cui tra pochi giorni ricorrerà il cinquantenario. “Lo Statuto dei diritti è frutto della politica unitaria e delle lotte sindacali: lo strumento non poteva che essere una legge, ma la matrice che l’ha prodotta e la forza che l’ha voluta è rappresentata dal movimento dei lavoratori e dalla sua azione organizzata”: così lo presentò l’allora Segretario Cgil Luciano Lama .L’idea di uno “Statuto” era già chiara a Giuseppe Di Vittorio, che quasi 20 anni prima, nell’ottobre 1952, afferma: “I lavoratori sono uomini e liberi cittadini della Repubblica italiana anche nelle fabbriche, anche quando lavorano. Nell’interesse nostro, nell’interesse vostro dei padroni, nell’interesse della patria, rinunciate all’idea di rendere schiavi i lavoratori italiani, di ripristinare il fascismo nelle fabbriche […] facciamo lo statuto dei diritti dei lavoratori all’interno dell’azienda. Formulato in pochi articoli chiari e precisi, lo statuto può costituire norma generale per i lavoratori e per i padroni all’interno dell’azienda […]”.

La strada è comunque ancora oggi lunga e tortuosa; si pensi solo alle nuove tipologie di contratti senza garanzie introdotti dalle sconsiderate politiche del lavoro degli ultimi decenni ed al totale controllo che troppo spesso i datori di lavoro (i “padroni” di cui parlava Di Vittorio) hanno sui dipendenti, per non parlare dello sterminato universo sotterraneo del lavoro nero.

Troppo spesso ancora oggi la storia si ripete: le grandi multinazionali, i grandi marchi, le grandi industrie ignorano i diritti dei lavoratori, essendo perfettamente consapevoli che in caso le violazioni che perpetrano venissero scoperte basterebbe pagare qualche multa o trasferire la produzione in paesi in cui, oltre ai minori costi da sostenere, le tutele ed i diritti dei lavoratori sono pressochè inesistenti.

Il lavoro in ambito bancario nel prossimo futuro dovrà affrontare cambiamenti e stravolgimenti epocali, che a mio parere dovranno essere monitorati e presidiati in primis dalle organizzazioni sindacali, nonché dagli stessi lavoratori del settore. Infatti, con l’evoluzione tecnologica e la nuova impostazione della società, sempre più frenetica ed accelerata, si correrà il rischio di un cambiamento della funzione sociale degli stessi istituti bancari, che potrebbero perdere il loro ruolo di servizio pubblico essenziale per puntare solo su quello che risulta più redditizio: da banca “del territorio” a banca esclusivamente di investimento, asettica e impersonale, che punta tutto su obiettivi e commissioni.

Questo possibile scenario porterebbe ad una “disumanizzazione” dell’intero settore, che già negli ultimi anni sta fisiologicamente perdendo figure che fino a non più di una decina di anni fa erano l’ossatura del sistema; si pensi all’ormai quasi “mitologico” cassiere, che oltre alla sua funzione operativa era (ed ove ancora presente è) fondamentale per la relazione che aveva modo di instaurare quotidianamente con la clientela e che per gran parte della stessa era più importante della figura del Direttore per il mantenimento dei rapporti proprio presso quella precisa filiale.

Quest’ evoluzione tuttora sta registrando un abbassamento del livello di professionalità medio, con una sempre maggiore perdita di importanti competenze a vantaggio di una rete formata esclusivamente da “venditori”, tutti omologati ed indottrinati a proporre al cliente non il prodotto a lui più utile ma quello richiesto dalla campagna commerciale del momento.

Lo stesso ruolo del consulente, che sempre più spesso a causa delle linee e delle politiche commerciali dei grandi manager a capo degli istituti bancari (che si rovesciano a cascata su tutti i gradini della scala gerarchica fino ad abbattersi sulla rete) si limita ad una continua e spasmodica corsa all’obiettivo ed alla overperformance a tutti i costi, dovrebbe liberarsi dello stress e della pressione del “risultato a tutti i costi” per puntare di più sul rapporto interpersonale, sul costruire la relazione, sul fare banca in modo più “etico”, sul proporre al cliente quello di cui realmente ha bisogno e non quello che viene imposto dai frequenti “contest” su determinati prodotti.

Il passaggio al modello di banca incentrata esclusivamente sulla vendita porterà sempre più al problema delle esternalizzazioni di interi settori del mondo bancario: dal momento che tutta una serie di competenze, di professionalità e di lavorazioni diventano superflue si trasformano da risorse a costi da ridurre o addirittura azzerare cedendoli a società esterne, con conseguente riduzione dei livelli occupazionali.

Negli ultimi anni inoltre la prepotente irruzione della tecnologia ha accentuato ancor di più questo processo e trasformato i ruoli all’interno della rete in maniera ancora più rapida e drastica, portando alla luce due facce della stessa medaglia: da un lato l’indiscutibile vantaggio di ottimizzare tempi e modalità lavorative ma dall’altro la scomparsa dell’empatia (che ovviamente una macchina non può trasmettere) e quindi l’omologazione di una filiale all’altra e di un istituto all’altro.

Questo non deve però trascendere in una sorta di “luddismo tecnologico”; la tecnologia (che di per sé è neutra, sta a noi usarla a nostro vantaggio) deve e dovrà essere considerata non il fine ma il mezzo per migliorare e modernizzare il lavoro bancario, per sperimentare migliori e più evolute procedure e sistemi di lavoro, per dare la possibilità di usufruire di nuove modalità lavorative (ad esempio un maggiore sviluppo dello smart working), per implementare ed ampliare a tutta la platea dei lavoratori la formazione (anche attraverso lo smart learning).

Ritengo comunque che la componente umana sarà sempre importante, ma solo se ci si allontanerà da un’interpretazione del lavoro bancario esclusivamente improntato alla ricerca del profitto.

Se non si imbocca questa strada, una strada più etica, “umana” e di reale servizio alla clientela allora sì, qualsiasi “avatar” potrà sostituirci nel nostro lavoro.

Giacomo Tedeschi

Delegato Fisac Cgil Genova