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I fatti del giugno/luglio sessanta ebbero a Chiavari un grave preambolo, anzi i primi rigurgiti saranno proprio in questa città. Di seguito una breve storia su quei giorni e di come Anpi e Partigiani reagirono proprio a Chiavari. Una pagina poco conosciuta. A cura dello storico Getto Viarengo.

Il prossimo 30 giugno saranno passati cinquantanove anni dai gravi fatti genovesi accaduti nel 1960. Questa scadenza ci permette di rivedere le cronache e avviare una riflessione sul significato di quella protesta rispetto al quadro politico di quei giorni. Erano passati quidici anni dalla fine del conflitto Mondiale e le ferite della guerra erano ancora evidenti, la politica nazionale, dopo il momento unitario della Costituente, vedeva profondi conflitti, aprendo, con i fatti genovesi, una lunga stagione di lotte. Il “miracolo economico” aveva dato al paese una ventata di benessere, ma non per tutti e in questa situazione si leggeva il grande tradimento dei valori della Costituzione e la politica sembrava allontanarsi dalla realtà del paese. Il governo stava vivendo un momento delicato, la Democrazia Cristiana, partito di maggioranza, elaborava una strategia per aprire ai Socialisti e avviare la nuova formula dei “governi di centro sinistra”.

Questa prospettiva non era assolutamente gradita ai Liberali, guidati da Malagodi, che abbandonarono il governo aprendo la crisi. Il Presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, affidava l’incarico esplorativo a Fernando Tambroni. Le trattative sono concluse e si giunge al voto di fiducia del 4 aprile, la Democrazia Cristiana vota insieme ai deputati del Movimento Sociale Italiano, nelle fila del partito di Michelini militavano diversi “repubblichini” e fascisti compromessi col regime mussoliniano.

Questa situazione crea immediate reazioni, tre ministri democristiani non accettano il grave compromesso e si dimettono immediatamente. Ancora reazioni e contracolpi scuotono il quadro politico: in un’affannosa riunione del Consiglio dei Ministri Tambroni affronta il problema apertosi. L’ufficio politico della D.C chiede le dimissioni di Tambroni interpretando “un significato politico in contrasto con le sue intenzioni, le finalità e la funzione politica della DC nella vita nazionale”. Tambroni non è più in grado di proseguire il suo progetto e si dimette, il Movimento Sociale, per ritorsione, esce da trentuno amministrazioni locali e apre a catena nuove crisi in importanti comuni italiani. A Genova i missini votarono contro il bilancio facendo cadere la giunta democristiana e commissariando il comune. Il paese è scosso, a Roma si cerca una soluzione ma Amintore Fanfani fallisce il suo mandato esplorativo per varare un nuovo governo. Con un atto che non trova nessuna giustificazione istituzionale, il Presidente Gronchi non accetta le dimissioni di Tambroni, chiedendo di presentarsi nuovamente al voto di fiducia in Senato.

La sinistra insorge e protesta vivacemente, il malessere nelle piazze italiane si fa sentire con forza, a questa situazione la risposta di Tambroni non si fa attendere: il primo provvedimento riguarda una circolare, diramata dal Ministero degli Interni, che invita questori e prefetti ad impedire ogni manifestazione o forma di protesta contro il governo. Questa iniziativa riscalda ancora di più la situazione e diveri attivisti sono fermati e denunciati. La svolta apre un notevole spazio politico ai missini: il 14 maggio, durante i lavori della Direzione Nazionale romana, si indica in Genova la sede del sesto congresso nazionale. Questa scelta accende nuove proteste, il futuro Presidente Sandro Pertini, in un caloroso intervento in un’affollatissima Piazza della Vittoria, sarà chiarissimo: “il congresso neofascista è convocato non per discutere, ma per provocare, per contrapporre un vergognoso passato alla Resistenza, per contrapporre bestemmie ai valori politici e morali affermati dalla Resistenza”.

I giornali iniziano a informare sulla forte tensione che si stava creando, la notizia che renderà incandescente la piazza arriverà nei giorni successivi: a presiedere il congresso genovese è chiamato Carlo Emanuele Basile, tra gli invitati Livio Faloppa. Si trattava dell’affermazione definitiva delle preoccupazioni di tutti i democratici: Basile e Faloppa rappresentavano il momento più drammatico dell’esperinza nazifascista ed appariva inamissibile una loro riabilitazione politica. Carlo Emanuele Basile aderiva al ricostituito partito fascista dopo l’8 settembre ’43 con l’incarico a presidere la provincia di Genova. Con questo ruolo sarà il responsabile delle deportazioni, della famigerata caccia agli ebrei genovesi per essere inviati al campo di sterminio di Awschitz, della repressione anti partigiana e, dal luglio 1944, è nominato sottosegretario dalla Difesa. Prima di lasciare Genova avrà tempo di realizzare un profondo rapporto di collaborazione con le autorità tedesche e in particolare con le SS genovesi presso la Casa dello Studente. Sarà condannato a vent’anni di carcere e in seguito alla pena di morte, nel giugno del 1946 ottiene la revisione del processo e i benefici dell’amministia.

Livio Faloppa era il federale genovese che comanderà la Brigata Nera Silvio Parodi, suo immediato collaboratore il chiavarse Vito Spiotta. Rileggendo la sentenza del processo si rivive il periodo triste della violenza nazifascista nel nostro territorio, le torture, le vessazioni, le fucilazioni. Riuscirà a fuggire dall’Italia e ripare in Spagna. I primi dirigenti politici locali a chiedere una pronta e ferma risposta a questa provocazione sono i socialisti, in una lettera di lunedì 6 giugno, il senatore Gaetano Barbareschi chiede di aprire un confronto tra i partiti democratici e avviare una mobilitazione sul territorio.

Gianni Dagnino, dirigente democrastiano genovese, si smarca dall’impegno e non aderisce alla richiesta. Per organizzare la loro assise genovese i missini di Michelini organizzano diverse iniziative sul territorio: si tratta di predisporre sedi e sezioni territoriali, eleggere i delegati per il congresso genovese. Il territorio di Chiavari era destinato a raccogliere gli iscritti del grande Tigullio, da Zoagli a Moneglia, raggiungendo le vallate interne. Il primo passo è l’inaugurazione della sede locale, il partito aveva individuato un appartemento nella centrale Via Bontà al numero 71.

L’evento è organizzato per il pomeriggio di domenica 19 giugno: si prevede di fondare un circolo giovanile intitolato a “Bir el Gobi”, la battaglia libica tra nazifascisti e Alleati; il circolo “seniores” doveva essere intitolato a Carlo Bordano. I fatti di Chiavari anticipano e confermano la protesta genovese. Sin dalle prime ore del mattino tutta la zona compresa tra Piazza Roma, Via Nino Bixio, Via Bontà è presidiata dalla polizia.

Gli uomini della Coduri, gli iscritti all’ANPI, i militanti del sindacato e dei partiti democratici, controllano la zona e chiedono alle forze di polizia di non permettere quella riunione.

I giornali di quei giorni non mancano di ricordare il clima pesante dell’agosto 1945: quando Piazza Mazzini è presidiata e nel Tribunale si tiene il processo a Spiotta, Righi e Podestà. Sono momenti di grande tensione, si chiede giustizia per chiudere quella storia di ferite tremende e immenso dolore. Quel 19 giugno si rivedeva quel clima e non si voleva permettere una restaurazione politica così ingombrante. Ho intervistato un protagonista dell’organizazione missina di quei giorni: erano previsti circa 160 giovani iscritti e 120 seniores. In quella riunione, dopo il dibattito politico, si dovevano essere votati i delegati per Genova. La tensione sale, Castagnino “Saetta” parla con questore, sono determinatisimi: “qui non passarà nessuno, dovete portarli via voi!”.

Alle 15 non sono entrati più di una decina di persone, la protesta cresce ancora, adesso le vie vicine sono affollate di gente confluita da tutto il territorio, specia da Sestri Levante. Il questore pensa di fermare la protesta chiedendo ai missini di abbandonare la sede: a metà pomeriggio sono allontanati su due camionette della polizia quattro militanti, due donne e due uomini, un quinto è fuggito sui tetti e viene raggiunto poco dopo. Il providenziale intervento delle forze dell’ordine eviterà maggiori disordini, adesso un missino raggiunge la zona delle Grazie e, in prossimità dell’Albergo Miramare, trova il gruppo genovese venuto a dare manforte ai chiavaresi. Sono invitati a tornare a Genova, dopo qualche discussione il gruppo rientra. La giornata di Chiavari terminava con molta tensione, ma senza scontri. Non sarà così a Genova, dove i disordini sconvolgono la giornata di lotta antifascista.

Nei giorni successivi ci saranno proteste a Licata, poi Roma e Reggio Emilia. Negli scontri perderanno la vita sette manifestanti, un prezzo altissimo e una lezione capace d’aprire una nuova fase politica: adesso il tentativo autoritario di Tambroni era definitavamente sconfitto, il 19 luglio la lettera di dimissioni.