Presentato il dossier Inca
Pagano di più, ma non hanno alcuna tutela previdenziale o assistenziale: per ogni voucher riscosso, il lavoratore versa un’aliquota contributiva pari al 25 per cento, ma la pensione vale molto meno. E’ quanto emerge dal dossier Inca sui voucher presentato a Roma, questa mattina, a sostegno della campagna referendaria promossa dalla Cgil che è tornata a chiedere al Governo di fissare al più presto la data della consultazione.
Le pensioni
Secondo lo studio, realizzato dagli esperti previdenziali del patronato, a parità di condizioni reddituali, stante l’attuale normativa, che impone un tetto massimo annuo di utilizzo dei ticket di 7.000 euro (pari a 9.333 euro lordi di reddito), a 70 anni il percettore di voucher potrà contare su un assegno mensile di 208,35 euro, quasi la metà di quello del titolare di partita Iva (402,52 euro), più distante dall’importo che percepirà il collaboratore (526,15 euro) e dalla pensione del lavoratore a Part time (528,89 euro). Se poi il dato del percettore di voucher viene raffrontato con quello degli agricoli, la differenza diventa rilevantissima: l’agricolo avrà una pensione di 1.019,98 euro, con una distanza rispetto al voucherista pari a 811,63 euro mensili.
Gli ultimi tra gli ultimi, sfortunato tra gli sfortunati, come li definisce l’Inca nel dossier, i voucheristi partono svantaggiati sotto tutti i punti di vista. Dati i vincoli normativi, per ogni anno di lavoro pagato con i voucher, riescono ad accantonare soltanto 7 mesi di contribuzione effettiva, presso la gestione separata dell’Inps; il che produce un effetto inevitabile a cascata, che condividono insieme solo con i titolari di partita Iva, per i quali però l’assegno pensionistico finale risulta comunque più alto (526,15 euro).
Requisiti contributivi
Quindi, per maturare 20 anni di contribuzione, requisito minimo per la pensione di vecchiaia, ne dovranno lavorare quasi 35. Se poi i lavoratori pagati con voucher volessero per assurdo raggiungere il requisito per la pensione anticipata (pari a 41 anni e 10 mesi per le donne e 42 anni e 10 mesi per gli uomini per il 2017), il risultato è a dir poco umanamente impossibile: dovrebbero lavorare oltre 73 anni, se donna o 74, se uomo, e rincorrere (inutilmente, potremmo aggiungere), al pari degli altri l’indice della speranza di vita, cui è legato l’adeguamento progressivo dell’anzianità contributiva. Una situazione tanto paradossale, quanto drammaticamente impossibile da raggiungere. A ciò si aggiunga che non sono tutelati in caso di malattia e non hanno diritto ad alcun sostegno al reddito quando non lavorano.
Infortuni sul lavoro
Per quanto riguarda gli infortuni e le malattie professionali, formalmente il lavoratore pagato con voucher è coperto da tali rischi. Perciò, ad ogni evento scatta l’assicurazione Inail che gli garantisce 32,38 euro dal 4° al 90° giorno di assenza dal lavoro e di 40,48 euro, dal 91° giorno fino alla guarigione. Importi che vengono calcolati sulla base di minimali retributivi convenzionali. Stante così le cose, il voucherista può dirsi quasi “fortunato”, perché quando si fa male a causa del lavoro, paradossalmente, riceverebbe più di quanto guadagna in un anno, considerando che il reddito pro capite medio è di circa 450 euro netti (60 voucher), pari a 50 euro mensili e a 2,27 euro al giorno.
Ma così non è. Di fatto, le imprese non denunciano gli infortuni e corrono ai ripari, come fosse una sorta di “bancomat”, solo quando l’incidente è grave e, dunque, non camuffabile con una semplice malattia (per la quale non c’è tutela alcuna). Una “cattiva pratica”, già ampiamente sedimentata tra molte aziende, che però nella specificità dei percettori di voucher è una “regola generale”, in mancanza di qualsiasi vincolo contrattuale.
Sul piano dei dati statistici, nonostante la scarsa incidenza del fenomeno degli infortuni sul lavoro, che investe i percettori di voucher, va segnalato comunque che solo un anno fa, nell’aprile 2016, l’Inail ha lanciato un allarme sottolineando come quasi sempre il pagamento del voucher coincida, con il giorno della denuncia di infortunio da parte dell’impresa e non è preceduto da alcun tipo di rapporto di lavoro. Il meccanismo è semplice: il lavoratore in nero si fa male gravemente. L’azienda è costretta a tirar fuori dal cassetto il ticket di 10 euro per la copertura assicurativa, precedentemente acquistato e non utilizzato, e dimostra, in questo modo, di essere in regola con la legge.
Un prezzo minimo da pagare, per il massimo guadagno. Il datore di lavoro non deve rispettare alcun vincolo; né dimostrare la sussistenza di un rapporto di lavoro diverso, visto che è solo “occasionale”, potendo in questo modo continuare all’infinito a utilizzare manodopera in “nero”, senza rischi. E se arriva qualche visita indesiderata di ispettori o carabinieri, ripete la stessa sceneggiata. A tal proposito, si consideri anche che nell’attività ispettiva dell’Istituto svolta nel 2016 su 20.876 aziende, sono stati “scovati” 5.007 lavoratori totalmente in nero, per lo più nei settori terziario (3.151) e nelle attività dei servizi di alloggio e di ristorazione 1.220), dove, non a caso, si concentra il maggior utilizzo dei voucher e dove è stato rilevato oltre l’80 per cento delle denunce di infortunio.
L’Inail stesso, nel corso di una audizione presso la Commissione Lavoro della Camera (7 febbraio), ha segnalato un preoccupante aumento degli eventi infortunistici, che investe i percettori di voucher: tra il 2012 e 2015 sono passate da 422 a 1.701; una crescita marcata e in controtendenza, ha sottolineato l’Istituto, considerando “l’andamento decrescente degli infortuni, nello stesso periodo, registrato per il complesso delle categorie di lavoratori, pari a -14,6%”. Il che fa suppore come l’andamento delle denunce abbia accompagnato l’estensione senza limiti dell’utilizzo dei voucher e come il fenomeno infortunistico sia ancora in larga parte un terreno inesplorato, che sfugge più facilmente alle statistiche ufficiali.
Analogo ragionamento vale se si prendono in considerazione i dati relativi ai decessi sul lavoro: nel periodo 2012-2015 sono deceduti 23 lavoratori, con una media di 6 persone ogni anno; due nel 2013, sei nel 2014, quindici, nel 2015. Il maggior numero di morti (11 in tutto) è stato rilevato, in particolare, nel 2014. Tra questi, spicca il fatto che 16 decessi hanno riguardato lavoratori impiegati nel settore industria e servizi e 6 in agricoltura.
Per quanto riguarda il 2016, l’andamento crescente non è smentito: anche se si tratta di dati ancora provvisori (rilevati al 31 dicembre 2016 e, quindi, non ancora consolidati), l’Inail indica comunque una tendenza ad un incremento sia per le denunce in complesso (1.817 casi) sia per gli eventi mortali (7 decessi).
Malattie professionali
Se per gli incidenti sul lavoro, l’andazzo è questo, per le malattie professionali il dossier Inca parla addirittura di totale inesistenza, considerando il gran numero di datori di lavoro in capo a ciascun voucherista. In questo caso, le possibilità di un riconoscimento da parte di Inail sono pari a zero. Il lavoratore per una qualsiasi patologia correlata al lavoro, prestando la sua opera in diverse aziende, non ha nessuna possibilità che gli venga riconosciuta. L’anamnesi lavorativa, necessaria per ricostruire le cause della malattia, si rivela un percorso impossibile da seguire perché “l’occasionalità” della prestazione cancella ogni traccia del suo passato.
L’obolo all’Inps per la gestione del servizio
Tornando ancora per un momento agli oneri contributivi previdenziali e assicurativi obbligatori, imposti per legge sui voucher – pari a 2,5 euro sui 10 nominali – il dossier segnala ancora i 50 centesimi, che ogni lavoratore, pagato con i ticket, deve versare all’Inps per la gestione del servizio reso dall’Istituto. Considerando il numero complessivo delle vendite 2016, pari a 133.800.000 di “buoni”, l’Inps ha incassato quasi 67 milioni di euro per questa voce. “Cosa effettivamente paghi il percettore di voucher non è dato sapere – si legge nel dossier -, visto che la cosiddetta quota di servizio non è prevista, almeno al momento, per nessun’altra prestazione previdenziale. Forse la stampa del buono lavoro? Troppo caro gli costa”.